True crime che passione!

In numero di agosto della rivista mensile Millenium -il supplemento del Fatto Quotidiano- è molto interessante, completamente dedicato alla cronaca nera. Riesamina i più famosi casi del passato, quelli che hanno diviso l’Italia fra innocentisti e colpevolisti, quelli che sono diventati cold case, e altri rimasti senza colpevole dopo decenni. Ci sono approfondimenti e riflessioni sul perchè il male spaventa ma affascina.

È così da sempre: spiare nell’abisso dell’animo umano attrae e ossessiona. Su questo brivido si è costruito il successo thriller e horror, ma ora siamo andati oltre, non ci si accontenta più di narrazioni di fantasia, si anela la verità, storie di vita vissuta che a causa di uno stravolgimento del destino hanno deragliato. È dilagata la febbre del true crime, story telling della cronaca nera che esalta il giornalismo investigativo. Si riscoprono casi eclatanti mai risolti per negligenza nelle indagini, omicidi senza colpevole, misteri rimasti tali per mancanza di strumenti tecnici (la prova del DNA è stata usata per la prima volta in Inghilterra nel 1986), in Italia un anno dopo nel caso dell’omicidio di Lidia Macchi).

Podcast, docufilm, serie televisive e romanzi su questi temi conquistano sempre più audience. Il true crime ha un effetto collaterale un po’ morboso: procura assuefazione. Ma il suo fascino si basa anche su una componente rassicurante, molto spesso le vicende narrate nella revisione proposta, basata su documentazioni, interviste e nuove testimonianze. Anche nel lato più oscuro si intravede una pallida sorta di happy ending.  Inoltre, come sostiene psicologo americano Roy F. Baumeister, nel saggio Evil: inside human violence and cruelty, il fenomeno crime è così seguito perché offre l’impressione, mentre intrattiene e sgomenta, di fornire anche strumenti di difesa. Aiuta a capire come e perché una persona dall’apparenza normale possa essere così incline a compiere azioni malvagie.

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